Pensare è faticoso, meglio lasciar perdere.

Pensare è faticoso, meglio lasciar perdere.
Blog di Paolo Borzini 

Decidere di smettere di pensare: è colpa dell’informazione? Dei media che ci imboccano con una narrazione prefabbricata? Oppure è una scelta nostra, una resa consapevole? La verità è che pensare è un’operazione faticosa, scomoda, ingombrante. Molto più semplice lasciarsi trasportare dalla corrente, adottare il pensiero in voga, replicare quello che si sente in giro — magari con convinzione, ma senza passare nemmeno dal filtro del dubbio.

Ma cos’è pensare, se non l’attività più nobile e faticosa della mente? Un processo in cui si formano idee, concetti, coscienza, immaginazione, desideri, critica, giudizio e ogni possibile raffigurazione del mondo.

Se la mettiamo così, verrebbe da dar ragione agli empiristi: il pensiero sarebbe solo un prodotto fisiologico del cervello, generato dalla complessità delle sue connessioni neuronali. Come la bile è una secrezione del fegato, o la saliva delle ghiandole salivari. Però — e perdonate il francesismo — ascoltando certi politici, giornalisti e luminari da salotto, si direbbe che il pensiero non venga prodotto dal cervello ma da un’altra parte, meno nobile e più ingombrante.

Senza tirare in ballo, in ordine sparso, Parmenide, Cabanis, Socrate, Platone, Aristotele o Steiner, proviamo a restare con i piedi per terra.

Immagino la mente umana come un computer: riceve input, memorizza, elabora. Più o meno. Perché, a dirla tutta, lo fa in modo piuttosto bizzarro.

Partiamo dalla memoria. Registriamo ciò che vediamo con gli occhi, sentiamo con le orecchie, tocchiamo con mani e piedi, odoriamo, gustiamo… ma non registriamo tutto. Altrimenti ci servirebbe una memoria da migliaia di petabyte (che non passa certo da quella parte ingombrante di cui sopra). Invece, selezioniamo — come se avessimo un libero arbitrio incosciente nel decidere cosa salvare e cosa buttare.

E cosa ricordiamo? Cose assurde: il vestito da cowboy del Carnevale a cinque anni, il sapore di un ghiacciolo al limone mangiato a dieci sul lungomare di Camogli, il naso aquilino di Giulio Cesare, i sette re di Roma, il nome della supplente del liceo (ok, lì forse c'è una ragione…). Ricordiamo odori: il profumo del mare in un giorno preciso, il burro che si scioglie piano nella padella, il brodo di cappone — che ha barattato, suo malgrado, i testicoli con una carriera gastronomica di tutto rispetto — e l’aroma penetrante dello zafferano.

Se la nostra mente fosse un computer, la gestione della memoria sarebbe da denuncia. Un algoritmo inefficiente, inefficace, fallace. Ma il peggio viene dopo, quando questi dati, raccolti alla rinfusa, devono essere elaborati per generare pensiero.

E lì, spesso, accade il disastro. I pensieri diventano costruzioni traballanti, scollegate, o peggio: convinzioni assolute senza radici. Leggendo i giornali o ascoltando certi programmi, non dovrebbe sorprenderci se sempre più persone decidono, più o meno coscientemente, di smettere di pensare. Come dire: la fatica non vale la pena, meglio lasciar pensare qualcun altro.

In fondo, pensare davvero è come cucinare un brodo buono: serve tempo, pazienza, fuoco lento, ottime verdure e un cappone disposto a sacrificarsi. Ai miei tempi si usava il dado istantaneo, insaporito, artificiale, pronto in trenta secondi e già dimenticato dopo trenta minuti. E siccome c'è sempre un peggio, oggi invece va di moda il brodo in brick da un litro pronto all’uso, senza bisogno di pensare o cucinare.E allora forse non abbiamo smesso di pensare. Abbiamo solo scelto di farci servire il pensiero liofilizzato o in brick, caldo di microonde e senza odore.

Ma attenti, chi rinuncia a pensare con la propria testa, prima o poi finisce a marciare col pensiero altrui. E quasi mai in una buona direzione. Ecco perché "Universi Resilienti" esiste, perché in ognuna di queste storie, qualcuno ha deciso di non smettere di pensare. Anche se costa caro. Anche se fa male. Anche se è più facile lasciar perdere.

Paolo Borzini

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