Non è estetica, è diagnosi!

BLOG di Paolo Borzini

Non è estetica, è diagnosi.

Ho cominciato a leggere il genere cyberpunk nel 1986, quando uscì in italiano Neuromante di William Gibson.
Chiariamo subito una cosa. La fantascienza mi ha sempre affascinato, ma i sottogeneri che la compongono sono tantissimi, ed è riduttivo etichettarla tutta con un’unica parola.
Basta pensare alle centinaia di libri scritti da Isaac Asimov. Si va dalle avventure di Lucky Starr ai robot, passando per i cicli della Fondazione.
Molti autori, nella fantascienza degli anni ’40-’60, usavano il genere per far riflettere il lettore e affrontare temi spinosi.
Catalogati semplicemente come “fantascienza”, quei romanzi riuscivano a passare indenni tra le maglie della censura e dell’accettabilità culturale.
Basti citare Fiori per Algernon, che affronta il ruolo dell’intelligenza e della cultura nella vita, la condizione dei meno fortunati, l’uso degenerativo dei farmaci e il tema — ancora attuale — della sperimentazione animale e umana.
Completamente diverse, invece, erano le avventure ciclopiche come Le armi di Isher di Van Vogt, oppure i racconti poetici e inquieti di Ray Bradbury.
E come dimenticare Frank Herbert con il suo ciclo di Dune.
Mi sono letteralmente dissanguato per comprare i primi due volumi nell’edizione Cosmo Oro della Editrice Nord.
Oppure Le città volanti di James Blish, un altro grande esempio di space opera.
Quando, come dicevo prima, mi capitò tra le mani Neuromante, fu una rivelazione.
A dire il vero, impiegai 30 pagine per assorbire e digerire lo stile. Schietto, crudo, con un’ambientazione spietata.
Ma quella era una fantascienza plausibile, fattibile. Talmente vicina che oggi, con la tecnologia attuale, per certi versi l’abbiamo persino superata.
Dopo Neuromante, nulla fu più lo stesso.
Gibson aveva spalancato una porta. Dietro c’erano vicoli digitali, memorie cablate, corporazioni predatorie, hacker depressi e protagonisti ai margini.
Uomini e donne che non volevano salvare il mondo, volevano solo sopravvivere o scappare da un passato più pesante del futuro.
Lessi tutto quello che potevo trovare sul genere. Monna Lisa Cyberpunk, La luce virtuale, L’accademia dei sogni.
Gibson aveva creato un linguaggio, uno stile, un mondo che si era già insinuato nelle nostre città prima ancora che ce ne rendessimo conto.
Poi arrivò Bruce Sterling, con Artificial Kid, Un futuro all’antica, Atmosfera letale.
Se Gibson era il poeta metropolitano, Sterling era il sociologo. Analizzava i flussi, i poteri, le trasformazioni.
La tecnologia non era più solo ambientazione. Era diventata ideologia incarnata.
Quando lessi Ricambi di Michael Marshall Smith, ebbi un’altra scossa.
Una storia feroce, tenera, senza sconti. Molto dura da digerire. Ci misi giorni per finirlo.
Un mondo fatto di cloni, creati per vivere più a lungo, ma per quei corpi non c’era mai un posto dove sentirsi davvero a casa.
Era cyberpunk, sì, ma con un retrogusto esistenziale che mi colpì profondamente.
E poi c’erano gli altri.
Greg Egan con Permutation City, Lucius Shepard, K.W. Jeter con Telemorte, Alfred Bester, Philip K. Dick. Lui non è cyberpunk, ma è lo zio tossico e visionario del genere.
Poi Alessandro Vietti, con il suo Cyberworld. Un gioiellino italiano fin troppo dimenticato.
E senza scordare Pat Cadigan con Synners, un autrice di tutto rispetto.
Col tempo ho capito che il cyberpunk non era solo un genere.
Era una diagnosi.
Un modo con cui alcuni scrittori, decenni prima, avevano letto i segnali del mondo.
Per esempio:
La corporatocrazia
In alcuni casi, le grandi aziende hanno più potere dei governi. Decidono le leggi, controllano i dati, ci fanno credere di essere liberi. Ma in realtà siamo clienti, non cittadini.
La sorveglianza digitale
Sei sempre spiato. Ogni like, messaggio, posizione o ricerca viene registrato da motori di ricerca, social media, governi o hacker. Lo usano per venderti qualcosa, influenzare le tue scelte o controllarti. Fingi di essere libero, ma il tuo telefono sa più di te della tua vita.
La marginalizzazione sociale
È ormai normalità. La società ti spinge ai bordi, come se fossi invisibile. Sei povero, straniero, diverso o scomodo? Niente lavoro, niente diritti, niente voce. Tutti fanno finta di non vederti, ma si impegnano per tenerti lontano.
L’identità liquida
Oggi, con i social e Internet, non abbiamo più un’identità fissa. Siamo come acqua che cambia forma. Su Instagram in un modo, su LinkedIn in un altro, su TikTok ancora diversi. Nella vita reale magari l’opposto. La rete ci spinge ad adattare chi siamo a like, algoritmi e maschere digitali. Rischiamo di smarrire il senso autentico di noi stessi.
La distanza tra corpo e presenza online
Nella vita vera sei una persona normale, ma online reciti la versione “glamour” di te stesso. Più curi l’avatar digitale, più il corpo reale e le emozioni vere diventano un dettaglio scomodo.

Oggi molti dicono che il cyberpunk è morto
Che è diventato solo un’estetica da videoclip
Che le giacche di pelle e le luci al neon sono cliché da cosplay
Ma per me, il cyberpunk è vivo
Anzi, senza ombra di dubbio, è adesso
I segnali che ho descritto sono le prove che Gibson e gli altri avevano visto la deriva del mondo decenni prima.
Un po’ come Orwell aveva provato ad avvisarci con 1984.
Basta guardarsi attorno, ci sono intelligenze artificiali che scrivono articoli, libri.
Algoritmi che decidono chi ha diritto a un mutuo.
Lavoratori intermittenti digitali che girano con lo smartphone in tasca, in attesa del prossimo incarico.
Guerre combattute nei server.
Identità hackerate e persone stanche, sempre connesse, ma mai ascoltate.
E in tutto questo, continuo a leggere, a scrivere, a programmare
Perché forse la vera rivolta cyberpunk, oggi, è ancora questa:
Non spegnere il pensiero, Non accettare tutto, Non dimenticare e Non perdere mai la speranza!

Paolo Borzini

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